L’ammissione al passivo fallimentare dei crediti tributari richiede l’iscrizione a ruolo

Il Sole 24 Ore – 2003

La Corte di Appello di Milano, sezione IV civile, con sentenza n. 1205/03 depositata in data 8 aprile 2003, ha ribadito il principio secondo cui l’iscrizione a ruolo di un credito tributario e la notifica della relativa cartella esattoriale al curatore, sono necessari al fine dell’ammissione allo stato passivo dello stesso credito.
La Corte ha respinto l’Appello dell’Ufficio avverso la sentenza del Tribunale di Milano del 20 settembre 2001, con la quale il Tribunale aveva confermato il decreto del Giudice Delegato della procedura in merito alla impossibilità di ammettere al passivo un credito tributario non iscritto nei ruoli.
Ritiene invece la Corte di Appello che l’accertamento dell’esistenza del debito d’imposta, ai sensi del combinato disposto degli articoli 2 e 19, D. Lgs. 546/1992, sia questione devoluta non al giudice fallimentare, ma alla giurisdizione delle commissioni tributarie.
Di conseguenza, ritiene la Corte che, essendosi il curatore opposto all’ammissione, non è possibile ammettere il credito, neppure “con riserva” ai sensi dell’art. 88, D.P.R. 602/1973, poiché non è possibile alcuna valutazione circa l’esistenza o meno dello stesso credito, considerato che il credito non iscritto nei ruoli non è impugnabile di fronte alla commissione tributaria competente per territorio.
Le conclusioni cui è giunta la Corte d’Appello sono condivisibili.
In tema infatti di necessaria notificazione anche al curatore degli atti impositivi dell’amministrazione finanziaria, se i presupposti dell’accertamento tributario si sono verificati prima della dichiarazione di fallimento, esistono ormai consolidati orientamenti in dottrina ed in giurisprudenza (cfr. in dottrina B. Quatraro, Manuale del curatore fallimentare, in giurisprudenza tra le altre Corte di Cassazione, sezione Tributaria, presidente Papa, sentenza n. 3427 dell’8 marzo 2002 e Corte di Cassazione sentenza n. 3667 del 28 aprile 1997, sezione I civile, presidente Cantillo).
Parimenti condivisibili appaiono le considerazioni cui è giunta la Corte di Appello in tema di rapporto tra giurisdizione fallimentare e giurisdizione tributaria nel procedimento di verifica dei crediti.
Il legislatore, a seguito delle modifiche introdotte con la riforma del sistema della riscossione, D. Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, ha modificato l’art. 88, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, prevedendo per la risoluzione del problema che: “se sulle somme iscritte a ruolo sorgono contestazioni, il credito è ammesso al passivo con riserva, anche nel caso in cui la domanda di ammissione sia presentata in via tardiva a norma dell’art. 101 legge fallimentare.” E’ ormai pacifico (si veda anche Corte di Cassazione, sentenza n. 7579 del 16 agosto 1996) che tale norma si applichi anche ai tributi indiretti.
Si attua in questo modo il coordinamento tra i poteri del giudice tributario ed i poteri del giudice fallimentare in sede di verifica dei crediti.
Infatti al giudice tributario spetta il potere-dovere, nella sede del processo tributario, di accertare l’esistenza e determinare l’entità del credito tributario.
Al giudice fallimentare spetta invece, in sede di verifica, il potere-dovere di accertare sia l’esistenza di un titolo valido ed opponibile alla massa dei creditori concorsuali, sia la concorsualità del credito tributario ossia l’anteriorità al fallimento della sua radice causale, cioè dei presupposti di fatto che hanno dato origine all’obbligazione tributaria e quindi al credito dell’amministrazione finanziaria (anche se non ancora liquido ed esigibile), sia infine l’esistenza dei privilegi richiesti.
La dichiarazione di fallimento non comporta attrazione in capo al giudice fallimentare della competenza ad esaminare questioni in materia di imposta, che rimangono invece devolute alla giurisdizione delle commissioni tributarie.
Per poter adire la competente commissione tributaria provinciale è necessario che si manifestino contemporaneamente due condizioni:
1) l’attribuzione di materia che è sancita dall’art. 2 del D. Lgs. 546/1992;
2) l’individuazione dell’atto impugnabile che è sancita dall’art. 19, D.Lgs. 546/1992.
La definizione degli atti dell’amministrazione finanziaria definitivi o impugnabili di fronte alle commissioni tributarie è quindi questione pregiudiziale al fine di poter valutare l’ammissione a titolo definitivo o “con riserva” dei crediti dell’amministrazione finanziaria al passivo fallimentare. Qualora invece l’amministrazione finanziaria richieda l’ammissione al passivo di una procedura sulla base di atti non definitivi e non suscettibili di impugnativa di fronte alle competenti commissioni tributarie, nessuna ammissione potrà essere disposta dal giudice fallimentare, poiché questi non può valutare il merito della controversia e non può neppure demandarne la valutazione al giudice tributario, con conseguente impossibilità per la procedura di attuare una qualunque forma di difesa da pretese dell’amministrazione finanziaria che potrebbero essere anche infondate.

Christian Dominici