L’Evoluzione normativa nel nostro Paese in tema di conferimento di aziende

2003

La spa “A” nell’anno 1980 ha effettuato il conferimento del ramo di azienda operativa con le agevolazioni previste dalle leggi n.576 del 2.12.75 e n.904 del 16.12.77 conferendolo in una spa “B” appositamente costituita.
A seguito di questa operazione la soc. A ha ricevuto in cambio azioni per L. 2.500.000 ma ha iscritto nel proprio bilancio la partecipazione al valore fiscale di L. 700.000 (pari al valore di libro); quindi vi è una plusvalenza latente di L. 1.800.000 pari alla differenza tra il valore fiscale ( 700.000) e le azioni (L. 2.500.000) ricevute in cambio del conferimento del ramo di azienda.
A norma delle leggi citate la plusvalenza (anche se non appare in bilancio) è sottoposta a tassazione in caso di alienazione delle azioni ricevute in cambio del conferimento.

Per maggior chiarezza si riepilogano i dati essenziali relativi al conferimento iscritti a tutt’oggi nel bilancio della società A (divenuta una “holding” di famiglia):
attivo: Partecipazione in soc, B L. 700.000
Passivo: Fondo plusvalenza L.904/77 L. zero
Il capitale sociale di B è di L. 2.700.000; la partecipazione di “A” nella soc. “B” è pari al 92,593%
Si precisa che il valore della partecipazione di A in B, calcolata sulla base del patrimonio netto di B, è attualmente di L. 10.000.000.

Ora la società B (operativa) intende aumentare il capitale sociale mediante l’ingresso di un nuovo socio; i soci della società (tra i quali il maggior azionista è la società A che possiede il 92,593% del capitale sociale di B) rinuncerebbero al diritto di opzione. Conseguentemente la partecipazione di A verrebbe automaticamente ridotta.

Si chiede:
Se tale aumento di capitale (a seguito della quale il socio A vede ridotta la propria partecipazione) è un atto che fa scattare l’obbligo di pagare la plusvalenza in proporzione alla riduzione della partecipazione? (cioè, tale operazione può essere considerata equivalente alla alienazione, ai fini della eventuale plusvalenza tassabile?).

A cura di Christian Dominici – Dottore Commercialista in Milano

L’articolo esamina gli interventi legislativi più recenti in materia di conferimenti d’azienda e di rami aziendali con particolare riferimento alla problematica dell’affrancamento a fini fiscali dei valori civilistici o del mantenimento dei valori fiscalmente riconosciuti.

La legge 2 dicembre 1975, n. 576 e la legge 16 dicembre 1977, n. 904

La prima disciplina agevolativa, nel nostro Paese in tema di conferimenti d’azienda è stata introdotta ad opera dell’articolo 34 della legge 2 dicembre 1975, n. 576.
Disponeva in particolare l’articolo 34, legge 576/1975 che ”la differenza tra il valore delle azioni o quote ricevute e l’ultimo valore dei beni conferiti riconosciuto ai fini dell’imposta sul reddito non concorre a formare il reddito imponibile dell’impresa o società apportante fino a quando non sia stata realizzata o distribuita ai soci”. In pratica la norma riconosceva per la prima volta la possibilità di effettuare conferimenti con la conservazione del valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione e con l’evidenziazione dei plusvalori latenti soltanto nel caso in cui si fosse provveduto a realizzare o distribuire ai soci la medesima plusvalenza.
L’operatività della norma era limitata, ai sensi del primo comma, ai conferimenti di aziende o di rami d’azienda in società esistenti o da costituire da effettuarsi entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge.
In seguito, l’articolo 10 della legge 16 dicembre 1977, n. 904 ha stabilito che “ai conferimenti di aziende o di complessi aziendali relativi a singoli rami dell’impresa in società esistenti o da costituire, eseguiti entro il 31 dicembre 1980, si applica agli effetti delle imposte sui redditi la disciplina stabilita nell’articolo 34 delle legge 2 dicembre 1975, n. 576.”
In questo modo, quindi, si provvedeva ad ampliare l’operatività della norma prevista dalla legge 576/1975 oltre il termine temporale che la stessa legge aveva posto di tre anni dalla sua entrata in vigore.
In merito al quesito proposto dal lettore si deve ritenere che l’operazione di aumento di capitale con rinuncia al diritto di opzione faccia effettivamente scattare l’obbligo di pagare l’imposta sulla plusvalenza latente in proporzione alla riduzione della quota di partecipazione. Tutto quanto sopra per due ordini di motivi, innanzitutto in considerazione del fatto che il diritto di opzione è comunque un diritto dotato di un autonomo valore patrimoniale, in secondo luogo in considerazione del fatto che se non si tassasse la plusvalenza imponibile in quel momento, anche all’atto della definitiva cessione delle azioni, la plusvalenza stessa non potrebbe più essere tassata visto che quelle azioni non sono più di proprietà della società. Lo stesso risultato, a parere di chi scrive, non potrebbe essere raggiunto con una ulteriore riduzione del valore di carico della partecipazione in caso di cessione/rinuncia del diritto di opzione e quindi rinviando la tassazione della plusvalenza all’atto della cessione definitiva della partecipazione, tutto ciò perché la rinuncia al diritto di opzione non comporta riduzione del valore della partecipazione, ma comporta direttamente riduzione della partecipazione con le stesse modalità della cessione di azioni.
Il quesito è interessante perché permette la disamina dei più recenti interventi legislativi in tema di effettuazione delle operazioni di conferimento d’azienda.

Il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 544

Nel corso dell’anno 1992, è stata introdotta nel nostro Paese, in attuazione della direttiva CEE n. 90/434, la disciplina in tema di scambio intracomunitario delle partecipazioni d’impresa.
In particolare il comma 5, dell’articolo 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 544, stabilisce che “le operazioni di fusione, scissione e scambio di partecipazioni mediante permuta o conferimento, indicate nell’articolo 1) (dello stesso D.Lgs., ossia operazioni svolte tra soggetti comunitari), non comportano realizzo di plusvalenze né di minusvalenze sulle azioni o quote date in cambio, il cui valore fiscale viene assunto dalle azioni o quote ricevute, ripartendosi tra tutte in proporzione dei valori alle stesse attribuiti ai fini della determinazione del rapporto di cambio”.
La norma in argomento, negli anni passati, ha spesso favorito un’interpretazione estensiva delle possibilità concesse dall’Amministrazione Finanziaria alle imprese residenti nel nostro Paese.
Sovente, infatti, lo scambio di partecipazioni in regime di neutralità fiscale, è stato lo strumento utilizzato da molti imprenditori al fine di conferire le azioni della propria azienda in società residenti in Stati CEE a regime fiscale più mite in tema di imposizione sulle plusvalenze realizzate per la cessione dell’impresa.
Lo scambio di partecipazioni poteva infatti essere lo strumento per trasferire in capo ad un’azienda non residente una partecipazione in un’azienda situata nel nostro Paese ed attuare di conseguenza all’estero la cessione della stessa partecipazione.
In questo senso, la Corte di Giustizia della Comunità Europea (causa C-28/95 del 17 luglio 1997, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, Ipsoa), ha ritenuto che nell’analisi delle predette operazioni intracomunitarie occorre valutare caso per caso la sussistenza di un eventuale intento elusivo. In particolare, secondo la decisione della Corte, la mancanza di valide ragioni economiche è desumibile dalla temporaneità dell’unione delle strutture societarie e dal fatto che lo scambio di partecipazioni possa costituire soltanto il preludio all’effettuazione di una cessione di partecipazioni.
Nel nostro Paese si segnala in merito la risoluzione n. 106 del 7 luglio 2000, che ha ritenuto non elusiva una complessa operazione di ristrutturazione aziendale e di scambio di partecipazioni intra- CEE. In particolare nel caso in argomento le parti oltre ad effettuare uno scambio intracomunitario di partecipazioni, avevano provveduto a definire un complesso Master Agreement in cui apparivano evidenti le motivazioni economiche dell’operazione.
In tale accordo le parti si davano tra l’altro reciprocamente atto che, in caso di risoluzione dei rapporti contrattuali, ogni parte avrebbe avuto diritto di cedere all’altra parte la partecipazione precedentemente acquisita al valore di mercato, vanificando in questo modo in capo alla società residente nel nostro Paese ogni possibilità di conseguire vantaggi fiscali nel caso di cessione delle partecipazioni, visto che qualunque cessione operata avrebbe comportato l’emersione del valore di mercato e la conseguente tassazione.
In tema poi di applicazione della disciplina prevista dal decreto legislativo n. 544/1992, è intervenuta nel nostro Paese una criticata risoluzione ministeriale, la n. 190/E del 13 dicembre 2000, con la quale l’Amministrazione Finanziaria ha ritenuto che la neutralità fiscale delle operazioni di scambio di partecipazioni comunitarie disciplinate dal medesimo D. Lgs., non consente alle aziende che effettuano l’operazione l’utilizzo del cosiddetto regime del “doppio binario”, ossia il disallineamento tra valori contabili e valori civilistici delle partecipazioni oggetto di scambio, né è possibile che le predette differenze siano riconciliate in appositi prospetti peraltro non presenti (per le operazioni di scambio di partecipazioni) nei modelli di dichiarazione dei redditi approvati (mentre sono invece presenti i prospetti di riconciliazione per le operazioni di fusione, scissione e conferimento).
La risoluzione ministeriale in argomento è stata aspramente criticata dalla dottrina che non ha ravvisato invece alcuna differenza sostanziale, neppure per quanto concerne il possibile disallinemento civilistico dei valori, tra la disciplina prevista dal D. Lgs. 544/1992 e la disciplina prevista invece dal D. Lgs. 358/1997.

Il D. Lgs. 358/1997

E’ stato successivamente introdotto nel nostro ordinamento tributario l’articolo 4 del D. Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, secondo cui “i conferimenti di aziende possedute per un periodo non inferiore a tre anni (…) non costituiscono realizzo di plusvalenze o di minusvalenze. Tuttavia il soggetto conferente deve assumere quale valore delle partecipazioni ricevute, l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferitaria ed il soggetto conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa, facendo risultare da apposito prospetto di riconciliazione, da allegare alla dichiarazione dei redditi, i dati esposti in bilancio ed i valori fiscalmente riconosciuti.”
Il D. Lgs. in argomento ha quindi esplicitamente introdotto sia la neutralità delle operazioni di conferimento tra imprese residenti nel nostro Paese, a condizione di conservare i valori fiscalmente riconosciuti, sia la possibilità di riconciliare i valori civilistici “corretti e di mercato”, con i valori fiscalmente riconosciuti.
Il D. Lgs. prevedeva altresì la possibilità di versare l’imposta sostitutiva del 19% per “affrancare” i maggiori valori iscritti in bilancio per effetto della imputazione dei disavanzi da annullamento o da concambio derivanti da operazioni di fusione o scissione di società e per le plusvalenze generate mediante la cessione di aziende o di partecipazioni di controllo o di collegamento iscritte come tali nelle “immobilizzazioni finanziarie” dei bilanci degli ultimi tre esercizi.
Anche in relazione all’applicazione delle norme contenute nel D. Lgs. 358/1997, era sorto il problema del trattamento delle riserve da conferimento.
In particolare il problema della differente rilevanza tra valori civilistici e valori fiscali nell’effettuazione delle operazioni di conferimento si pone qualora l’operazione venga compiuta ai sensi dell’art. 4, comma 3, D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358.
Si tratta, quindi, di tutti i casi in cui la società conferente e conferitaria iscrivono in bilancio a fini civilistici i valori risultanti dalla perizia di valutazione, ma non effettuano alcun affrancamento dei plusvalori derivanti dalla medesima perizia, proseguendo quindi ad utilizzare a fini fiscali, i medesimi valori già riconosciuti in capo all’impresa conferente.
Va anche ricordato, per inciso, che in tali casi è obbligatorio predisporre in capo all’impresa conferente ed in capo alla conferitaria un prospetto di riconciliazione tra i valori civilistici ed i valori fiscalmente ammessi.

Il trattamento delle riserve da conferimento

Occorre poi approfondire la tematica circa il trattamento delle riserve che si originano in caso di disallineamento tra valori civilistici e valori fiscali.
In particolare la riserva che si origina in capo all’impresa conferente è generata dalla differenza tra il valore civilistico della partecipazione iscritta in bilancio ed il valore fiscale del patrimonio netto trasferito (ossia il valore già fiscalmente ammesso in capo all’impresa conferente delle attività e passività trasferite). Fino all’emanazione della risoluzione ministeriale 6 giugno 2000, n. 82/E (in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, Ipsoa), una parte della dottrina era orientata nel ritenere che tale riserva potesse essere considerata come una riserva di capitale liberamente distribuibile tra i soci. Un’interpretazione estensiva della similare normativa dettata dall’art. 2, comma 2, D. Lgs. n. 544/1992, conduceva invece a ritenere che la riserva in argomento dovesse essere tassata solo in caso di sua distribuzione. Altri orientamenti intendevano invece spostare in maniera definitiva la tassazione della riserva in argomento soltanto al momento della definitiva alienazione della partecipazione da parte della stessa impresa conferente. In carenza di ogni definizione da parte del D. Lgs. 358/1997, la risoluzione ministeriale n. 82/2000 ha inteso regolare la materia stabilendo che la riserva che si genera in capo all’impresa conferente “non è un fondo in sospensione d’imposta (va d’altronde detto che ogni volta che il legislatore ha inteso creare dei fondi in sospensione di imposta li ha specificamente nominati), bensì una libera posta di patrimonio netto, come tale liberamente utilizzabile per la copertura di perdite di esercizio o distribuibile ai soci senza alcun onere impositivo per la società”.
In pratica, quindi, la distribuzione della riserva in capo all’impresa conferente non comporta alcuna tassazione in capo alla stessa impresa, ma comporta invece una piena tassazione in capo ai soci percipienti (fino al 31 dicembre 2003 l’azienda conferente poteva comunque decidere di distribuire tale riserva e di attribuire ai soci il credito d’imposta – i vecchi basket A o B – in questo modo, comunque non sarebbe cambiato l’effetto complessivo dell’operazione, visto che in caso di successiva distribuzione di utili che avessero già scontato la normale imposizione, l’azienda non avrebbe potuto attribuire alcun credito d’imposta su tali ulteriori utili). In senso conforme all’orientamento ministeriale, ma soltanto nei casi di cessione della partecipazione, si era già espressa la circolare ABI 30 marzo 1998, n. 7 – serie tributaria.
L’orientamento ministeriale è apparso a molti osservatori legato alla volontà di garantire un adeguato gettito fiscale, visto che il momento impositivo poteva, forse, essere rinviato al momento di cessione della partecipazione, se capiente (come ha stabilito in ambiti differenti la Risoluzione Ministeriale 31 maggio 2001, n. 79/E (in I Quattro Codici, cit.), secondo cui qualsiasi distribuzione di riserve di capitale riduce il costo fiscale della partecipazione e concorre al reddito per l’eccedenza).
Diverso è invece il caso della riserva che si genera in capo all’impresa conferitaria.
Precisa, infatti, in questo caso, l’art. 4, comma 3, del D. Lgs. 358/1997, che l’aumento di patrimonio netto del soggetto conferitario che eccede il valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita, deve intendersi formato con utili d’impresa.
In pratica, quindi, al fine di evitare una doppia imposizione delle plusvalenze sulla partecipazione e sui beni conferiti, si stabilisce che l’eventuale distribuzione in capo all’impresa conferitaria della riserva in argomento, genererà un dividendo.
Diverso sarebbe stato invece il caso in cui si fosse deciso l’affrancamento per il tramite del versamento dell’imposta sostitutiva del 19% sui plusvalori iscritti. In questo caso si avrebbe un allineamento tra i valori civilistici ed i valori fiscali e la distribuzione della riserva da parte dell’impresa conferitaria non genererebbe un dividendo, ma sarebbe equiparabile ad una riserva di capitale che potrebbe quindi essere distribuita senza scontare alcuna imposizione neppure in capo al soggetto percipiente, ma ridurrebbe soltanto il costo fiscalmente ammesso della stessa partecipazione.

Conferimento dell’unica impresa dell’imprenditore individuale

Alcune riflessioni sono state sviluppate in dottrina circa la possibilità che si potesse conferire fruendo dei benefici di cui al D. Lgs. 358/1997, l’unica impresa dell’imprenditore individuale, magari in un’altra società costituita anche in un altro Paese della Comunità Europea.
L’articolo 3, comma 3, D. Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, prevede espressamente il caso di conferimento dell’unica impresa individuale e prevede altresì, che l’eventuale cessione delle partecipazioni ricevute in cambio del conferimento, nel triennio successivo allo stesso conferimento, si considera effettuata nell’esercizio dell’impresa.
Evidenti sono anche i vantaggi che il contribuente potrebbe trarre dal conferimento dell’unica azienda in una società straniera con sede in un Paese della CEE, per esempio Olanda, e con la successiva cessione della stessa azienda magari fruendo sia del regime di participation exemption già vigente in quel Paese, sia della norma agevolativa di cui alla direttiva madre-figlia per il rimpatrio dei dividendi.
La fattispecie ha attirato l’attenzione anche del Comitato Consultivo per l’applicazione delle norme antielusive che, con parere n. 15 del 7 maggio 1999, ha ritenuto di carattere elusivo il conferimento da parte di un soggetto residente di un ramo dell’unica impresa individuale in una società costituita in Inghilterra con la motivazione che l’operazione prospettata avrebbe potuto ridurre l’imponibile di un altro ramo d’azienda esistente nel nostro Paese. In questo caso l’operazione è apparsa preordinata ad attuare lo spostamento di materia imponibile verso Paesi con più miti livelli di tassazione, ed anche a favorire il rimpatrio dei dividendi con l’utilizzo del cosiddetto regime “madre-figlia”.
Non si può comunque ritenere, come hanno dimostrato anche successivi pareri emessi dal Comitato Consultivo, che il conferimento all’estero dell’unica impresa dell’imprenditore individuale possa in ogni caso considerarsi operazione di tipo elusivo e generare l’applicazione della norma di cui all’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, visto che tale operazione può in molti casi essere effettivamente sorretta da valide ragioni economiche, si pensi ad esempio alla possibilità di conferire un complesso aziendale contraddistinto da una elevata connotazione familiare nell’ambito di un gruppo multinazionale al fine di poterne accrescere la competitività in nuovi mercati.

Iscrizione dei valori in bilancio e redazione della perizia di valutazione

Altro problema rilevante in tema di conferimenti d’azienda e di evidenziazione di differenze tra i valori fiscalmente riconosciuti ed i valori civilistici, è quello che concerne la possibile evidenziazione nella perizia ex art. 2343 non di valori civilistici superiori ai valori fiscalmente riconosciuti, come solitamente accade, ma di valori civilistici (si pensi al caso in cui il perito non reputa più esistente una parte del valore dell’avviamento già iscritto) inferiori rispetto a quelli già fiscalmente ammessi. Si ricorda che secondo la dottrina prevalente (si vedano tra gli altri M. Gazzo e L. Mezzani, in Il Fisco n. 27/2000; V. Artina in Pratica Professionale I Casi, n. 11/99), i plusvalori o gli eventuali minusvalori evidenziati nella perizia di valutazione ex art. 2343 e recepiti civilisticamente nel bilancio dell’impresa conferitaria non devono essere rilevanti a fini fiscali qualora ricorrano le condizioni di cui al citato art. 4, D. Lgs. 358/1997 (si ricorda comunque, per inciso, che la relazione ministeriale allo schema di decreto legislativo di riforma, art. 3, comma 161, L. n. 662/1996, esemplificava soltanto il caso delle plusvalenze trattando il tema della neutralità fiscale).
Si tratta quindi di argomentare circa la possibilità che uno strumento di tutela dei soci e dei terzi quale è la perizia di valutazione ex art. 2343 codice civile, possa influenzare non soltanto i valori civilistici di iscrizione dei beni, ma anche i valori fiscalmente rilevanti.
Non sussistono infatti dubbi che in un’operazione di conferimento effettuata a valori storici fiscalmente riconosciuti vi possa essere discordanza tra i valori civilistici conferiti ed i valori fiscali di iscrizione (si veda anche la risoluzione ministeriale n. 142 del 18 settembre 2000).
In altri casi, però, come nel caso in cui il perito ritenga di non poter mantenere un valore di avviamento già iscritto presso l’impresa conferente, si può rilevare che ciò che è carente non è il requisito della neutralità fiscale dell’operazione, ma si potrebbe eccepire l’inesistenza stessa dei maggiori valori civilistici e fiscali già in capo alla società conferente; di conseguenza l’articolo 4 del D. Lgs. citato circa la neutralità fiscale dell’operazione, non può comunque permettere l’iscrizione di valori già inesistenti sia civilisticamente sia fiscalmente nel bilancio della società conferente.
L’iscrizione ai fini civilistici dell’avviamento all’attivo dello stato patrimoniale avviene nei casi previsti dall’art. 2426, punto 6) del codice civile e, di conseguenza, (si veda anche R. Caramel, Il Bilancio delle Imprese, Milano, 1996), la stessa iscrizione è condizionata alla ragionevole attesa che il valore dell’avviamento potrà essere recuperato grazie alla redditività futura da esso ritraibile. Occorre di conseguenza che, anche sulla scorta della relazione peritale, si valuti se la minore valutazione dell’avviamento da conferire è dovuta soltanto al fatto che il perito ha voluto esprimere un valore massimamente prudenziale e minimale di iscrizione a fini civilistici delle attività aziendali, oppure al fatto che il perito ha ritenuto inesistenti già nel bilancio dell’impresa conferente le condizioni di iscrivibilità dello stesso avviamento a causa, magari, dell’impossibilità che lo stesso sia in grado di produrre maggiori redditi soddisfacenti futuri. In quest’ultimo caso né la società conferente, né la società conferitaria potrebbero mantenere il maggior valore dell’avviamento che è già civilisticamente e fiscalmente inesistente in capo all’azienda conferente.
Appare allo scrivente che il legislatore fiscale, con l’introduzione del D. Lgs. 358/1997, e con la scelta attribuita alle imprese di effettuare i conferimenti in regime di neutralità fiscale e di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, o per il tramite dell’affrancamento di maggiori valori a fini fiscali, abbia inteso applicare alla realtà aziendale il principio secondo cui si possono configurare due tipi di conferimento: il “conferimento cessione” ed il “conferimento continuità”.
Nel nostro ordinamento civilistico e fiscale, in realtà, tali due tipologie di operazioni non appaiono nettamente delineate e delineabili.
E’ vero infatti che da un punto di vista civilistico l’art. 2254 del codice civile rinvia, in tema di garanzie e rischi dei conferimenti, alle norme sulla vendita ed alle norme sulla locazione. E’ altrettanto vero che è unanimemente riconosciuto anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che il conferimento è un atto a titolo oneroso, sia perché le fattispecie contrattuali che vengono poste nel codice civile a tutela delle garanzie del conferimento stesso sono atti tipicamente onerosi, sia perché dalla quantificazione del valore dei beni conferiti dipende la commisurazione dei diritti dei soci alla partecipazione alla vita societaria.
Anche le norme fiscali, se si legge l’art. 9, comma 5, D.P.R. 917/1986, dispongono l’equiparazione dei conferimenti alle cessioni a titolo oneroso.
Non sembra però che a fini fiscali il conferimento possa essere in ogni caso assimilato ad un’operazione di cessione: ne sono una prova i conferimenti previsti dall’articolo 4, comma 1, D. Lgs. 358/1997, operazioni nelle quali, mentre si ravvisano gli estremi dell’onerosità (visto che si assiste alla separazione tra valori aventi rilevanza civilistica e valori aventi rilevanza fiscale), appare più difficile rilevare i caratteri della cessione, dal momento che non si assiste mai all’evidenziazione dal punto di vista fiscale delle plusvalenze o minusvalenze proprie dei beni oggetto di conferimento.
Le interpretazioni delle norme fiscali che inquadrano le operazioni di conferimento soltanto come “conferimento cessione” risultano superate dall’evoluzione legislativa e dall’evoluzione delle forme di impresa in cui prevalgono sempre più accordi di cooperazione e di joint-venture, che hanno evidenziato la possibilità che lo strumento del conferimento d’azienda, pur essendo oneroso, non sia sempre riconducibile alla fattispecie della cessione.
Si consideri inoltre che anche il legislatore fiscale vede con maggior favore le operazioni di conferimento-continuità, anche in considerazione del fatto che l’articolo 6, comma 4, della legge 21 novembre 2000, n. 342 dispone che le aziende acquisite in dipendenza di conferimenti effettuati ai sensi dell’art. 4, comma 1, del D. Lgs. 358/1997, si considerano possedute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente.
In pratica, quindi, i conferimenti che non interrompono il periodo triennale di possesso dell’azienda (necessario per fruire dei benefici del D.Lgs. 358/1997) sono i conferimenti in cui, a fini fiscali, l’azienda conferente e l’azienda conferitaria assumono gli stessi valori già fiscalmente ammessi prima dell’operazione in argomento; negli altri casi l’affrancamento a fini fiscali dei plusvalori di bilancio conduce alla fattispecie di “conferimento-cessione” e quindi ad ogni nuovo conferimento inizia a decorrere nuovamente il periodo triennale per la fruizione dei benefici.

Il regime dei conferimenti previsto dal TUIR a seguito delle modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 344 del 12 dicembre 2003.

A seguito dell’approvazione del D. Lgs. n. 344 del 12 dicembre 2003 sono stati introdotte nel D.P.R. 917/1986 un insieme di norme volte a regolamentare fiscalmente le operazioni straordinarie d’impresa.
I capi III e IV del D.P.R. 917/1986, negli articoli da 170 a 181 recano la nuova disciplina domestica e transnazionale delle operazioni di trasformazione, fusione, scissione, conferimento di aziende e di partecipazioni e di scambio di partecipazioni. Le modifiche apportate con riferimento alle suddette operazioni di riorganizzazione aziendale vanno considerate alla luce delle previsioni recate dall’art. 4, comma 1, lett. m), della legge delega concernenti l’abrogazione dell’imposta sostitutiva sulle operazioni di riorganizzazione delle attività produttive di cui al decreto legislativo 8 ottobre 1997, n. 358, ed il mantenimento dei regimi di neutralità e di determinazione dell’imponibile di cui al medesimo decreto n. 358 ed al decreto legislativo n. 544 del 1992.
In particolare per quanto concerne i conferimenti di aziende o di rami d’azienda effettuati in ambito nazionale, il primo comma dell’art. 176 del TUIR stabilisce che tali conferimenti effettuati nell’esercizio di attività commerciali, non costituiscono realizzo di plusvalenze o minusvalenze a condizione che il soggetto conferitario (e quindi non anche il soggetto conferente) rientri tra i soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lettere a) e b). Si tratta quindi di tutti i casi in cui indipendentemente dalla forma del soggetto conferente, la società conferitaria è una società di capitali, cooperativa, di mutua assicurazione, o un ente pubblico o privato che ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali. Al fine di poter fruire del regime di neutralità fiscale il soggetto conferente deve assumere quale valore delle partecipazioni ricevute l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita ed il soggetto conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa, facendo risultare da apposito prospetto di riconciliazione della dichiarazione dei redditi i dati esposti in bilancio ed i valori fiscalmente riconosciuti.
In definitiva, il legislatore con la riforma fiscale ha inteso eliminare la possibilità prevista dal D. Lgs. 358/1997 di affrancare i maggiori valori civilistici attribuendo loro rilevanza fiscale per il tramite del versamento dell’imposta sostitutiva del 19% ed ha invece mantenuto e “quasi istituzionalizzato” il regime della doppia sospensione d’imposta, ossia del mantenimento dei valori fiscalmente riconosciuti e dell’iscrizione in bilancio secondo i valori civilistici.
E’ stato anche eliminato il vincolo del possesso triennale dell’azienda per poter fruire del beneficio in argomento, in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni concernenti le analoghe operazioni intracomunitarie. Si è inoltre stabilito il principio del conferimento-continuità secondo cui le aziende acquisite in relazione ai conferimenti effettuati secondo la norma sopra descritta si considerano possedute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente.
Il terzo comma dell’art. 176 stabilisce l’inapplicabilità della norma antielusiva di cui all’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 ai conferimenti effettuati secondo il predetto regime di doppia sospensione d’imposta nei casi in cui il soggetto conferente proceda successivamente all’alienazione della partecipazione utilizzando la norma agevolativa di cui all’art. 87 del TUIR che prevede il regime di participation exemption. Si noti infatti che l’abrogazione dell’imposta sostitutiva prevista dal D. Lgs. 358/1997, ha reso di fatto le operazioni di cessione d’azienda sottoposte al normale prelievo del 33% sulla plusvalenza realizzata. Il legislatore fiscale ha espressamente stabilito l’inapplicazione della norma antielusiva di cui all’art. 37-bis in considerazione del fatto che mentre la cessione d’azienda con il versamento dell’usuale imposizione del 33% comporta il riconoscimento a fini fiscali dei maggiori valori in capo al cessionario, il conferimento della partecipazione e l’alienazione nel regime della participation exemption non genera maggiori valori fiscalmente riconosciuti in capo alla società cessionaria.
Qualora poi il conferimento abbia ad oggetto l’unica azienda dell’imprenditore individuale (art. 175 ultimo comma TUIR), la successiva cessione delle partecipazioni ricevute a seguito del conferimento genera in capo al soggetto cedente una plusvalenza tassata come reddito diverso (art. 67, comma 1 lett c) e 68 TUIR).
Un ulteriore effetto derivante dalla nuova impostazione tributaria è rappresentato dall’abolizione della possibilità di convertire in valori fiscalmente riconosciuti i disavanzi da concambio e da annullamento emergenti dalle operazioni di fusione e scissione, pur continuando ad essere neutre le operazioni stesse. Per effetto della disposizione transitoria prevista dalla nuova norma tributaria, la rilevanza fiscale dei disavanzi è riconosciuta relativamente alle operazioni di fusione e scissione deliberate fino al 30 aprile 2004.
Gli articoli 178 e 179 del D.P.R. 917/1986, così come modificato dal D. Lgs. 344/2003, prevedono poi la possibilità di applicare anche alle operazioni di conferimento messe in atto tra un soggetto residente nel nostro Paese, ed un soggetto residente nella Comunità Europea, il regime di doppia sospensione d’imposta previsto per le operazioni nazionali dall’art. 176 citato.
Un’ultima nota merita il regime di participation exemption introdotto nel nostro ordinamento fiscale dall’art. 87 D.P.R. 917/1986 secondo cui non concorrono alla formazione del reddito imponibile, in quanto esenti, le plusvalenze realizzate relativamente ad azioni o quote di partecipazione in società o enti, escluse le società semplici (e gli enti alle stesse equiparate), a condizione che le stesse partecipazioni siano state possedute ininterrottamente per un periodo di almeno 12 mesi, siano classificate nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie e, almeno dall’inizio del terzo periodo di imposta precedente al momento del realizzo, la società partecipata eserciti un’impresa di tipo commerciale e non di mero godimento e non sia residente in Stati o territori a regime fiscale privilegiato.

Christian Dominici