Il sole 24 Ore – 2002
L’Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Normativa e Contenzioso, con parere emesso in data 16 luglio 2002, si è espressa in merito ad un caso di società di capitali dichiarata fallita ed in seguito ritornata in bonis per effetto di un consistente versamento di denaro (pari a circa 11,5 miliardi di vecchie lire) affluito ad opera dei soci alla massa fallimentare in misura tale da consentire la copertura del passivo fallimentare ed evitare quindi l’alienazione del prestigioso immobile di proprietà sociale, permettendone la conservazione nel patrimonio della società.
In riferimento al caso in argomento il parere della Direzione Centrale Normativa e Contenzioso si pone in contrasto con quanto affermato nella circolare ministeriale n. 26/E del 22 marzo 2002.
In particolare l’Agenzia delle Entrate (nello stesso senso si era già espressa la DRE Lombardia interpellata in proposito con nota del 18 gennaio 1999, protocollo 44948/1998) ritiene che ai fini della determinazione del valore del residuo attivo fallimentare ai sensi dell’art. 125 D.P.R. 917/1986, in riferimento ai beni che costituiscono detto residuo attivo, per le società di capitali, vada assunto il valore fiscalmente risconosciuto in luogo del valore normale degli stessi beni come definito dalla precedente circolare ministeriale n. 26 del 22 marzo 2002.
L’orientamento della circolare n. 26/2002 era quello di equiparare, pur con talune differenze, la procedura fallimentare alla procedura di liquidazione ordinaria delle attività aziendali, l’accento era infatti posto dalla circolare sulla necessità di determinare il risultato reddituale dell’unitario periodo fallimentare e di assoggettare di conseguenza a tassazione i plusvalori latenti nei beni restituiti dopo la chiusura del fallimento e che altrimenti non sarebbero stati più tassati. Assumeva quindi la circolare che la persona giuridica che residua dopo la chiusura della procedura fallimentare ai sensi dell’articolo 118 legge fallimentare, fosse una persona giuridica differente e nuova rispetto a quella preesistente alla data del falllimento. Di qui la necessità di tassare il valore normale e non il valore fiscalmente riconosciuto dei beni.
Diversa è invece la ratio sottostante il recente parere dell’Agenzia delle Entrate che già in premessa si pone come strumento di correzione parziale della circolare citata. Assume infatti l’Agenzia nel proprio recente parere che, nel caso di fallimento di società di capitali, la chiusura della procedura fallimentare determina il rinvio alle decisioni dell’assemblea dei soci circa la manifestazione della volontà di proseguire l’attività societaria o circa la volontà (che in questo caso può anche non essere espressa) di dar luogo alla liquidazione del residuo attivo con assegnazione dei beni ai soci. Infatti la chiusura della procedura fallimentare ai sensi dell’art. 118 della legge fallimentare è causa di scioglimento del rapporto societario come recita il secondo comma dell’articolo 2448 del codice civile, ma lo scioglimento del rapporto societario nei casi in cui si addivenga alla chiusura del fallimento per aver soddisfatto le richieste di tutti i creditori o per carenza di domande di ammissione al passivo fallimentare (art. 118 legge fallimentare n. 1 e 2), non implica né l’estinzione né la cancellazione della società, qualora residuino, come nel caso in esame, beni societari, ma la continuazione, dopo la chiusura del fallimento, come ritenuto da numerose pronunce della giurisprudenza, dell’attività di liquidazione dei beni, o la convocazione dell’assemblea della società al fine di deliberare la revoca dello stato di liquidazione e quindi la riconferma degli amministratori e la continuazione delle attività d’impresa.
La ratio sottostante il parere dell’Agenzia delle Entrate è quella di ritenere che nel caso di fallimento di società di capitali, la persona giuridica che subentra dopo la chiusura della procedura, non è differente dalla persona giuridica preesistente, di conseguenza la tassazione delle attività residue potrà seguire le regole ordinarie, e quindi avvenire o in caso di prosecuzione dell’attività e di cessione dei beni in argomento, o in caso di mancata prosecuzione delle attività e quindi di assegnazione dei beni ai soci. Che la persona giuridica che residua dopo la chiusura del fallimento non sia una persona giuridica né diversa, né nuova rispetto a quella preesistente al fallimento è dimostrato anche dal fatto che nel corso della procedura fallimentare tutti gli organi societari: amministratori, sindaci ed assemblea, sono rimasti in carica, e possono quindi riprendere i loro poteri dopo la chiusura del fallimento.
Nel caso di prosecuzione dell’attività economica da parte dell’impresa tornata in bonis, il bene può validamente essere restituito alla società sulla base del proprio valore fiscalmente riconosciuto prima della dichiarazione di fallimento, in relazione agli eventi che tale bene subirà, ne seguirà la relativa tassazione. Nell’ipotesi in cui, quindi, il bene così acquisito al patrimonio sociale, verrà alienato dalla società, troveranno applicazione le usuali norme fiscali di tassazione ai sensi degli articoli 53 o 54 D.P.R. 917/1986 in considerazione del carattere strumentale o meno del bene rispetto all’attività della società.
Nel caso in cui, invece, nessun atto volitivo venga compiuto in seguito al ritorno in bonis della società, a parere dell’Agenzia delle Entrate, si farà seguito alla prosecuzione dell’attività liquidatoria, con cessione del bene immobile e assegnazione del residuo attivo (scontata l’imposizione prevista dall’art. 124, D.P.R. 917/1986) ai soci.
In entrambi i casi, quindi, a parere dell’Agenzia delle Entrate, non si deve verificare alcuna tassazione al momento della restituzione del bene alla società ex fallita, né al momento della chiusura della procedura fallimentare mancando altri componenti positivi di reddito, visto che il bene immobile sarà valutato al costo fiscalmente riconosciuto.
Non appare quindi sostenibile la tesi della tassazione al valore normale delle attività che residuano alla fine del periodo fallimentare ai sensi della circolare n. 26/2002 poiché la chiusura del periodo reddituale del fallimento non equivale necessariamente alla chiusura del periodo reddituale di una società in liquidazione, visto che in quest’ultimo caso si assiste necessariamente all’estinzione della società, alla liquidazione dell’attivo ed all’assegnazione del residuo attivo ai soci, mentre nel caso di una società di capitali dichiarata fallita alla quale residuano ulteriori beni alla chiusura del fallimento non si assiste né all’estinzione della società, né all’assegnazione dei beni ai soci; tali possibilità si potranno infatti realizzare solo a seguito di una ulteriore delibera assembleare ed in quel momento, in accordo con quanto stabilito dal recente parere dell’Agenzia delle Entrate, sconteranno l’ordinaria imposizione fiscale.
Diverso è il caso del fallimento dell’imprenditore individuale, in cui la chiusura della procedura fallimentare con residuo attivo deve essere tassata con riferimento al valore normale dei beni, poiché la chiusura della procedura rappresenta sempre assegnazione dei beni al socio, tale impostazione è infatti condivisa sia dalla circolare ministeriale n. 26 del 22 marzo 2002, sia dalla risoluzione ministeriale n. 171/E del 5 giugno 2002, sia dal recente parere in commento dell’Agenzia delle Entrate.
In definitiva nel caso di chiusura del fallimento la valutazione del residuo attivo alla chiusura della procedura dovrà avvenire secondo i criteri che seguono:
1) I beni o gli importi relativi all’impresa restituiti ai soci o all’imprenditore individuale vanno valutati al loro valore normale;
2) I beni che residuano alla chiusura del fallimento di una società di capitali vanno valutati al costo fiscalmente riconosciuto, non si verifica quindi alcuna tassazione al momento della restituzione del bene alla società ex fallita, la società non si estingue rinviando l’assoggettamento ad imposta al momento della manifestazione del presupposto impositivo (alienazione del cespite a titolo oneroso o assegnazione ai soci);
3) Sono esclusi dal calcolo del valore del residuo attivo i debiti verso creditori accertati ma non insinuati o che abbiano successivamente rinunciato al concorso (così come già precisato anche nella circolare n. 26/2002).
Christian Dominici