2004
L’eliminazione dell’imposta sostitutiva sulle operazioni straordinarie d’impresa prevista dal D.Lgs. 358/1997, è suscettibile di causare mutamenti nelle scelte di trasferimenti di aziende e rami d’azienda tra gruppi multinazionali, in particolar modo con riferimento alla problematica della scelta tra l’effettuazione di una operazione straordinaria in neutralità di imposta o l’effettuazione di una cessione d’impresa con pagamento dell’Ires e con la conseguente evidenziazione di maggiori valori fiscali.
Il d.lgs 12 dicembre 2003, n. 344: la ratio dell’eliminazione dell’imposta sostitutiva
Il d.lgs 12 dicembre 2003, n. 344, ha profondamente modificato il regime di tassazione delle operazioni straordinarie, interessando con l’abrogazione del d.lgs. 358/1997, tutte le operazioni di cessione, conferimento, fusione e scissione.
Il testo dell’art. 1, d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, previgente alla riforma del d.lgs 344/2003, prevedeva un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi del 19%, su: 1) plusvalenze realizzate mediante la cessione di aziende possedute per un periodo non inferiore a tre anni (escluse imprese fallite o in liquidazione coatta); 2) plusvalenze realizzate mediante la cessione di partecipazioni di controllo o di collegamento, ai sensi dell’art. 2359 c.c., che risultino iscritte come tali nelle immobilizzazioni finanziarie degli ultimi tre bilanci.
Il comma 2, dell’art. 4, del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, ora abrogato, consentiva l’applicazione dell’imposta sostitutiva anche per l’affrancamento di plusvalenze derivanti da conferimenti di aziende o di partecipazioni di controllo o di collegamento.
Il comma 1, dell’art. 6, del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, anch’esso abrogato, prevedeva che i maggiori valori iscritti in bilancio per effetto della imputazione dei disavanzi da annullamento o da concambio derivanti da operazioni di fusione o scissione di società si considerano fiscalmente riconosciuti se assoggettati all’imposta sostitutiva del 19%.
Il previgente regime, con la previsione di un’imposta sostitutiva al 19%, intendeva concedere un incentivo fiscale utile a favorire il ricorso alle operazioni straordinarie, in quanto ritenute in se stesse uno strumento di rafforzamento dell’apparato industriale e produttivo del Paese. La pratica professionale ha tuttavia spesso rivelato operazioni straordinarie prive di sostanza economica e motivate dal solo obiettivo di acquisire vantaggi fiscali. Di qui una politica ed una serie di disposizioni, culminate con la norma antielusiva dell’art. 37-bis D.P.R. 600/1973, finalizzate sia al mantenimento delle agevolazioni sia al contenimento delle operazioni prive di motivazioni economiche non fiscali.
Il mancato successo della politica percorsa con l’art. 37-bis ha indotto il riformato Testo Unico delle Imposte sui Redditi all’eliminazione degli incentivi fiscali alle operazioni straordinarie, limitandosi a garantire la “neutralità fiscale” delle stesse e lasciando finalmente alle motivazioni gestionali e produttive ogni valutazione di convenienza in relazione alle riorganizzazioni societarie. Nella stessa direzione va anche l’istituto del cosiddetto “consolidato nazionale”, di cui al capo II, sez. II, del novellato TUIR, il quale assicura l’assenza di condizionamenti di fonte fiscale alla scelta, da parte di gruppi di imprese, della struttura economicamente e strategicamente più efficiente, consentendo il trasferimento infra-gruppo in regime di neutralità fiscale dei beni diversi da quelli che producono ricavi.
Eliminazione dell’imposta sostitutiva e participation exemption
L’eliminazione dell’imposta sostitutiva è, infatti, una conseguenza necessaria della nuova filosofia impositiva e lo stesso istituto della participation exemption non è configurabile come un incentivo fiscale alle operazioni straordinarie ma come una conseguenza, sia pure non inevitabile, del nuovo regime.
Contrariamente al precedente, il nuovo regime, infatti, non assume più come contribuenti effettivi dell’utile societario i soci che conseguono il reddito (mediante il credito d’imposta) ma vuole la tassazione dell’utile solo presso la società al momento della produzione, così che la successiva distribuzione ai soci (diversi dalle persone fisiche e dagli enti non commerciali) diviene quasi fiscalmente irrilevante. Le plusvalenze su partecipazioni, nel contesto di questa nuova filosofia impositiva, divengono “in linea di principio il tantudem di utili già realizzati dalla società partecipata e accantonati a riserve o di utili il cui realizzo è previsto per il futuro” (Assonime, nota 16 settembre 2003), in quanto tali coerentemente inquadrabili nel regime di participation exemption, quale strumento per evitare una doppia imposizione. Il fatto che sia riconosciuta un’esenzione senza condizioni (al 95 per cento) degli utili ed un’esenzione condizionata (all’iscrizione tra le immobilizzazioni finanziarie degli ultimi tre bilanci) alle partecipazioni, si giustifica con la considerazione che solo il legame stabile tra società partecipante e la società partecipata giustifica la presunzione di un rapporto tra gli utili conseguiti dalla società partecipata e la plusvalenza realizzata nella cessione di partecipazioni. Qualora le partecipazioni fossero iscritte nell’attivo circolante ben si potrebbe presumere, infatti, che le eventuali plusvalenze, lungi dall’essere il frutto di utili pregressi, derivino da congiunturali fluttuazioni dei valori borsistici.
Anche l’ulteriore condizione che la società partecipata non risieda in un Paese a regime fiscale privilegiato di cui all’art. 167, co. 4, TUIR, deriva dalla natura di strumento di contrasto della doppia imposizione della participation exemption. In detti “paradisi fiscali”, infatti, gli utili o non sono tassati in capo alla partecipata o sono tassati assai più favorevolmente che nel nostro regime, così che un’eventuale esenzione delle plusvalenze derivanti dalla cessione della partecipazione non eviterebbe una doppia imposizione, come nello spirito dell’istituto, ma consacrerebbe un mancato assoggettamento a tassazione di materia imponibile. Alternativamente il contribuente potrà dimostrare, a seguito dell’interpello previsto dal comma 5, lettera b), dello stesso articolo 167, che dalla partecipazione non sia stato conseguito, sin dall’inizio del periodo di possesso, l’effetto di localizzare i redditi in stati o territori sottoposti a regimi fiscali privilegiati di cui al predetto decreto ministeriale (“black list”). La logica strutturale dell’istituto della participation exemption, quale strumento per evitare la doppia imposizione, e non mera norma agevolativa, è inequivocabilmente confermata dal mancato richiamo della lettera a), del medesimo comma 5 dell’art. 167, TUIR (ovvero il soggetto residente dimostra che la partecipata, pur localizzata in un “paradiso fiscale”, svolge un’effettiva attività industriale o commerciale), perché in questo caso non sussisterebbe un problema di doppia imposizione.
L’ultima condizione per l’applicazione del regime di participation exemption, l’effettivo esercizio di un’attività commerciale, con esclusione delle cosiddette “immobiliari pure”, non ci appare invece giustificabile con la ratio dell’istituto quale strumento per evitare la doppia imposizione. Si tratta di un’evidente norma di disincentivo, in cui una logica agevolativa sembra prevalere sulla logica strutturale dell’istituto.
Il regime di participation exemption porta come conseguenza che molte operazioni straordinarie, pur in presenza di plusvalenze realizzate, sono sottratte al campo di applicazione delle imposte, rendendo quindi superflua la previsione di un’imposta sostitutiva. Tuttavia, il fatto che molte operazioni straordinarie, riguardanti sia partecipazioni che aziende, non possano rientrare nel regime di participation exemption richiede di allargare l’orizzonte al fine di comprendere pienamente la ratio dell’abolizione dell’imposta sostitutiva. Il regime di participation exemption non interessa, infatti, sul piano soggettivo tutti i contribuenti e sul piano oggettivo non riguarda né tutte le partecipazioni né le cessioni o i conferimenti di complessi aziendali.
L’impatto della riforma sulle operazioni straordinarie
Si è già detto della volontà del legislatore di rimuovere un forte incentivo fiscale alle operazioni straordinarie rivelatosi particolarmente distorsivo e quindi inidoneo al rafforzamento dell’apparato produttivo del Paese: ovvero la tassazione sostitutiva in capo al cedente della plusvalenza al 19% con riconoscimento fiscale dell’ammortamento con aliquota ordinaria (inizialmente pari al 36% più il 4,25% di Irap). Un ulteriore motivo per l’eliminazione dell’imposta sostitutiva è sicuramente rintracciabile nel fatto che la riduzione dell’aliquota ordinaria rende meno giustificabile la permanenza di un’imposta sostitutiva, non tanto per il restringersi della differenza tra le due aliquote (dal 36% al 33% quella ordinaria; 19% quella sostitutiva), ma perché la logica stessa della riduzione dell’aliquota ordinaria è connaturata alla volontà di un allargamento della base imponibile con conseguente restringimento dei regimi sostitutivi.
Riassumendo le considerazioni sopra esposte, in via di primissima approssimazione, ed al fine di cogliere la ratio complessiva della riforma, è possibile stilizzare il seguente nesso causale nella riforma:
filosofia impositiva eliminazione del eliminazione
di tassazione dei redditi –> credito d’imposta e participation —> imposta sostit.
alla produzione nuovo regime dividendi exemption al 19 per cento
Sul piano tecnico i maggiori effetti dell’eliminazione dell’imposta sostitutiva, che estendono i loro effetti su tutte le operazioni straordinarie, sono sostanzialmente due: 1) le plusvalenze emergenti con l’operazione straordinaria saranno tassate solo con l’imposta ordinaria e non vi sarà più la possibilità di ricorrere all’imposta sostitutiva agevolata; 2) nelle operazioni di fusione e scissione non sarà più possibile ottenere il riconoscimento fiscale dei maggiori valori dei beni o del patrimonio netto, i quali varranno ai soli fini civilistici.
Inoltre, il fatto che il conferimento o la cessione d’azienda siano sottoposti al regime ordinario di tassazione (e che solo attraverso questo regime possa ottenersi il riconoscimento fiscale dei maggiori valori, impedendo il trasferimento in regime di neutralità ogni discontinuità) e che il conferimento o la cessione di partecipazioni possa avvenire in regime di participation exemption, produce una forte asimmetria fiscale tra le due diverse modalità di trasferimento di una medesima realtà produttiva: il cessionario o conferitario avrà interesse a vedersi conferita o ceduta l’azienda a valori di mercato (per i conseguenti vantaggi in termini di ammortamento e di avviamento dei maggiori costi), con tassazione della plusvalenza in capo al cedente o conferente, mentre quest’ultimo avrà interesse a cedere o conferire la partecipazione in regime di participation exemption.
Per quanto concerne le operazioni di fusione e scissione l’eliminazione dell’imposta sostitutiva certamente accentuerà per il futuro la differenza tra valori civilistici e fiscali, giacché essa offriva una possibilità, ora preclusa, di riallineamento tra i due diversi “binari”. Sicché l’obbligo di far “risultare da apposito prospetto di riconciliazione della dichiarazione dei redditi i dati esposti in bilancio ed i valori fiscalmente riconosciuti” dovrà presumibilmente essere espletato con sempre maggiore frequenza.
In relazione ai rapporti tra normativa civilistica e fiscale sarà altresì interessante vedere gli effetti che saranno prodotti dalla scelta di agganciare l’applicazione del regime di participation exemption alla classificazione di bilancio della partecipazione. Per quanto, infatti, il codice civile prescriva, all’art. 2424bis, che devono essere iscritti tra le immobilizzazioni “gli elementi patrimoniali destinati ad essere utilizzati durevolmente” e che “si presumono immobilizzazioni” le partecipazioni in altre imprese in misura non inferiore a quelle stabilite dal terzo comma dell’art. 2359 per le partecipazioni di collegamento (ovvero un quinto dei voti in assemblea ordinaria o un decimo se la società è quotata), nondimeno, trattandosi di una presunzione semplice che ammette in quanto tale prova contraria, la scelta è demandata al prudente apprezzamento degli amministratori che ben potranno: a) collocare tra le immobilizzazioni una partecipazione priva dei requisiti di cui all’art. 2359, comma 3, quando essa costituisca un investimento durevole; b) collocare tra l’attivo circolante una partecipazione con i requisiti di cui all’art. 2359, comma 3, quando essa costituisca un investimento non durevole. C’è da aspettarsi che questa norma produca o possa produrre un inquinamento di matrice fiscale sul bilancio significativo, tanto più deprecabile in un contesto normativo di riforma delgata che si prefigge esattamente l’obiettivo opposto, là dove prevede l’eliminazione delle “interferenze prodotte nel bilancio dalla normativa fiscale sul reddito d’impresa anche attraverso la modifica della relativa disciplina” (art. 6, co. 1, lett. a), della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, per la riforma del diritto societario).
Gli effetti della Riforma nelle operazioni di riorganizzazione internazionale
La cessione d’azienda operata per il tramite di un’altra società europea
Va in primo luogo rilevato che la riforma della tassazione con l’introduzione anche nel nostro Paese del regime di participation exemption, provocherà, probabilmente, la drastica riduzione delle operazioni di conferimento all’estero di rami d’azienda per la loro successiva cessione.
Infatti, in vigenza della normativa precedente, che non prevedeva nel nostro Paese la possibilità di fruire del regime di participation exemption, era frequente assistere ad operazioni di riorganizzazione aziendale strutturate come segue.
La società con sede nel nostro Paese, in regime di neutralità fiscale in ragione delle disposizioni recate dal D. Lgs. 544/1992, provvedeva a conferire ad una società con sede in uno Stato Cee in cui fosse presente il regime di participation exemption un ramo d’azienda (ad esempio Olanda).
Decorso il periodo richiesto dalla legislazione estera per la maturazione del beneficio della participation exemption, la società conferitaria provvedeva a cedere all’estero il ramo d’azienda e ad incassare il prezzo pattuito. A questo punto, in alcuni casi, la società conferitaria con sede all’estero provvedeva a distribuire alla società controllante italiana il dividendo rappresentato dal corrispettivo della cessione, utilizzando i benefici previsti dalla Direttiva Cee n. 435/90/CEE del 2 luglio 1990 che prevede che i dividendi distribuiti tra società con sede nella Comunità Europea sono imponibili per il 5% del loro ammontare.
In questo modo, quindi, la società italiana riusciva ad eludere la normativa in tema di imposizione sui capital gain, “trasformando” una plusvalenza da cessione di società in un dividendo esente al 95% perché distribuito da una impresa controllata e con sede nella Comunità Europea.
L’introduzione del regime di participation exemption anche nel nostro Paese, peraltro per il tramite di una formulazione letterale della norma di cui all’art. 87, D.P.R. 917/1986 che dovrebbe rendere l’istituto introdotto nel nostro Paese tra i più convenienti a livello europeo per le imprese, ridurrà sicuramente il ricorso alle operazioni di conferimento intracomunitario di rami d’azienda per addivenire alla cessione all’estero degli stessi, visto che lo stesso risultato può ora essere conseguito per il tramite della cessione del ramo d’azienda nel nostro Paese.
In considerazione del fatto che la norma introdotta dall’art. 87 D.P.R. 917/1986, non prevede, a differenza di quanto accade nella maggior parte degli altri Paesi europei, alcun livello minimo di detenzione di quote di capitale della società partecipata al fine di poter fruire del regime della participation exemption, è possibile ritenere che nel caso in cui un gruppo multinazionale intenda cedere una società di cui detiene una quota di partecipazione non elevata, tale ramo d’azienda (che non fruirebbe dei benefici della participation exemption nella maggior parte degli altri Paesi CEE) potrebbe prima essere conferito ad una società italiana e poi ceduto nel nostro Paese.
Il mutamento delle modalità di imposizione nel nostro Paese, è in grado di apportare dei benefici nei gruppi multinazionali anche nel momento in cui si intendano porre in liquidazione alcune società del gruppo.
Si consideri infatti che in alcuni Paesi della Comunità Europea, come ad esempio la Francia, non sono deducibili i costi sostenuti per la liquidazione delle società. In questo caso può risultare conveniente il conferimento in regime di neutralità fiscale della società dalla controllante francese ad una società con sede nel nostro Paese, e la successiva messa in liquidazione della società in Italia.
La scelta tra cessione e conferimento d’azienda
A seguito dell’approvazione del D. Lgs. n. 344 del 12 dicembre 2003, si è assistito alla netta separazione delle operazioni di conferimento d’azienda dalle operazioni di cessione aziendale.
I capi III e IV del D.P.R. 917/1986, negli articoli da 170 a 181 recano la nuova disciplina domestica e transnazionale delle operazioni di trasformazione, fusione, scissione, conferimento di aziende e di partecipazioni e di scambio di partecipazioni. Le modifiche apportate con riferimento alle suddette operazioni di riorganizzazione aziendale vanno considerate alla luce delle previsioni recate dall’art. 4, comma 1, lett. m), della legge delega concernenti l’abrogazione dell’imposta sostitutiva sulle operazioni di riorganizzazione delle attività produttive di cui al decreto legislativo 8 ottobre 1997, n. 358, ed il mantenimento dei regimi di neutralità e di determinazione dell’imponibile di cui al medesimo decreto n. 358 ed al decreto legislativo n. 544 del 1992.
In particolare per quanto concerne i conferimenti di aziende o di rami d’azienda effettuati in ambito nazionale, il primo comma dell’art. 176 del TUIR stabilisce che tali conferimenti effettuati nell’esercizio di attività commerciali, non costituiscono realizzo di plusvalenze o minusvalenze a condizione che il soggetto conferitario (e quindi non anche il soggetto conferente) rientri tra i soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lettere a) e b). Si tratta quindi di tutti i casi in cui indipendentemente dalla forma del soggetto conferente, la società conferitaria è una società di capitali, cooperativa, di mutua assicurazione, o un ente pubblico o privato che ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali. Al fine di poter fruire del regime di neutralità fiscale il soggetto conferente deve assumere quale valore delle partecipazioni ricevute l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita ed il soggetto conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa, facendo risultare da apposito prospetto di riconciliazione della dichiarazione dei redditi i dati esposti in bilancio ed i valori fiscalmente riconosciuti.
In definitiva, il legislatore con la riforma fiscale ha “quasi istituzionalizzato” il regime della doppia sospensione d’imposta, ossia del mantenimento dei valori fiscalmente riconosciuti e dell’iscrizione in bilancio secondo i valori civilistici.
E’ stato anche eliminato il vincolo del possesso triennale dell’azienda per poter fruire del beneficio in argomento, in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni concernenti le analoghe operazioni intracomunitarie. Si è inoltre stabilito il principio del conferimento-continuità secondo cui le aziende acquisite in relazione ai conferimenti effettuati secondo la norma sopra descritta si considerano possedute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente.
Il terzo comma dell’art. 176 stabilisce l’inapplicabilità della norma antielusiva di cui all’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 ai conferimenti effettuati secondo il predetto regime di doppia sospensione d’imposta nei casi in cui il soggetto conferente proceda successivamente all’alienazione della partecipazione utilizzando la norma agevolativa di cui all’art. 87 del TUIR che prevede il regime di participation exemption. Si noti infatti che l’abrogazione dell’imposta sostitutiva prevista dal D. Lgs. 358/1997, ha reso di fatto le operazioni di cessione d’azienda sottoposte al normale prelievo del 33% sulla plusvalenza realizzata. Il legislatore fiscale ha espressamente stabilito l’inapplicazione della norma antielusiva di cui all’art. 37-bis in considerazione del fatto che mentre la cessione d’azienda con il versamento dell’usuale imposizione del 33% comporta il riconoscimento a fini fiscali dei maggiori valori in capo al cessionario, il conferimento della partecipazione e l’alienazione nel regime della participation exemption non genera maggiori valori fiscalmente riconosciuti in capo alla società cessionaria.
Qualora poi il conferimento abbia ad oggetto l’unica azienda dell’imprenditore individuale (art. 175 ultimo comma TUIR), la successiva cessione delle partecipazioni ricevute a seguito del conferimento genera in capo al soggetto cedente una plusvalenza tassata come reddito diverso (art. 67, comma 1 lett c) e 68 TUIR).
E’ quindi evidente che mentre nell’ottica del “cedente” l’impresa, l’operazione di conferimento della società è vantaggiosa poiché il mantenimento dei valori fiscalmente riconosciuti non genera plusvalenze imponibili in capo alla società conferente, nell’ottica del soggetto “acquirente” l’operazione di conferimento comporta la continuità dei valori fiscalmente riconosciuti e quindi l’impossibilità ad effettuare maggiori ammortamenti fiscali.
E’ quindi chiaro che per il soggetto ”acquirente” l’impresa, sarebbe più conveniente aver acquisito l’impresa per il tramite di una operazione di cessione (che comporta il pagamento dell’imposta Ires del 33% sui valori realizzati dal cedente), ma che consente all’acquirente di iscrivere maggiori valori fiscalmente riconosciuti.
Il soggetto “cedente” ha invece interesse a non subire imposizione sulle plusvalenze latenti e quindi ad operare una operazione di conferimento, piuttosto che una operazione di cessione aziendale.
Tale trade-off tra le operazioni di conferimento e di cessione aziendale, avrà sicuramente effetti anche nell’ambito delle operazioni di ristrutturazione dei gruppi multinazionali.
Nel caso infatti un gruppo di società voglia trasferire dall’Italia ad un’altra consociata estera un ramo d’azienda risulterà, in ottica di gruppo, più conveniente utilizzare l’operazione di conferimento aziendale, anziché l’operazione di cessione del ramo d’azienda, in quanto l’operazione di cessione comporterebbe in capo alla società italiana l’onere fiscale del 33% sulla plusvalenza realizzata.
Diverso potrebbe invece essere il caso in cui nell’ambito dello stesso gruppo multinazionale si voglia trasferire un ramo d’azienda da una consociata con sede nella Cee alla consociata Italiana.
In questo caso il gruppo di imprese potrebbe legittimamente optare per la realizzazione di una operazione di cessione del ramo d’azienda anziché di conferimento dello stesso.
Infatti l’operazione di cessione comporterebbe l’imposizione in capo al Paese cedente (probabilmente in misura inferiore rispetto alla imposizione del nostro Paese pari al 33%) delle plusvalenza realizzate, ma consentirebbe alla consociata residente nel nostro Paese di iscrivere maggiori valori fiscalmente rilevanti. In ottica di gruppo quanto esposto può consentire di ridurre l’incidenza fiscale sulla consociata italiana che è tradizionalmente considerata tra quelle a maggiore incidenza fiscale.
Un ulteriore effetto derivante dalla nuova impostazione tributaria è rappresentato dall’abolizione della possibilità di convertire in valori fiscalmente riconosciuti i disavanzi da concambio e da annullamento emergenti dalle operazioni di fusione e scissione, pur continuando ad essere neutre le operazioni stesse. Per effetto della disposizione transitoria prevista dalla nuova norma tributaria, la rilevanza fiscale dei disavanzi è riconosciuta relativamente alle operazioni di fusione e scissione deliberate fino al 30 aprile 2004.
Gli articoli 178 e 179 del D.P.R. 917/1986, così come modificato dal D. Lgs. 344/2003, prevedono poi la possibilità di applicare anche alle operazioni di conferimento messe in atto tra un soggetto residente nel nostro Paese, ed un soggetto residente nella Comunità Europea, il regime di doppia sospensione d’imposta previsto per le operazioni nazionali dall’art. 176 citato.
Ne consegue che fino al 30 aprile 2004, nei gruppi multinazionali, potrebbe essere interessante deliberare operazioni straordinarie che consentano il trasferimento di attività / rami d’azienda nel nostro Paese e l’affrancamento dei disavanzi per il tramite della residua possibilità di versamento dell’imposta sostitutiva del 19%.
Christian Dominici e Ernesto Tavoletti