Il problema della deducibilità degli interessi passivi nei diversi contesti internazionali

Azienda e Fisco –  2003

Il problema della “thin capitalisation” è particolarmente sentito a livello internazionale, poiché il finanziamento di un’impresa attraverso il capitale fornito dalle società socie si presta agevolmente a determinare considerevoli spostamenti di materia imponibile da un Paese all’altro, e quindi a determinare una concorrenza fiscale anche potenzialmente negativa tra i diversi Paesi. Si analizzano di seguito gli orientamenti legislativi dei principali Paesi europei e le posizioni già espresse dall’OCSE e dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea.

L’evoluzione della normativa fiscale del nostro Paese verso il concetto di thin capitalisation

Nel nostro Paese, la legge delega, legge 7 aprile 2003, n. 80, per la riforma del sistema fiscale statale ha stabilito un insieme di linee guida volte al riordino dell’intero sistema fiscale.
Tali linee guida concernono, nel caso dell’imposta sul reddito delle società, possibili sostanziali cambiamenti in tutto il sistema di determinazione dell’utile fiscale, sia in tema di possibilità di determinare, ad esempio, in capo alla società o all’ente controllante, un’unica base imponibile per tutte le società che compongono il gruppo, sia per quanto concerne l’esenzione delle plusvalenze realizzate relativamente a partecipazioni in società residenti e non residenti, sia anche in relazione alla possibilità di introdurre anche nel nostro Paese un regime di indeducibilità per gli interessi passivi pagati in misura eccedente la misura normale alle società socie.
Si tratta in pratica del regime di “thin capitalisation”, ossia della possibilità di controllare da parte dell’amministrazione finanziaria il livello di interessi passivi pagati alle società socie della società controllata, al fine di escludere la deduzione dell’ammontare di interessi passivi che eccede una certa soglia, o di considerare il pagamento di tali interessi, con le stesse caratteristiche e qualità fiscali del pagamento di dividendi alle società socie.
Allo stato attuale le misure fiscali di cui sopra sono ricomprese nella bozza del nuovo articolo 110 del progetto di riforma del testo unico delle imposte sui redditi del nostro Paese.
Si deve comunque ricordare che già l’introduzione, nel nostro sistema tributario, alcuni anni fa, della Dual Income Tax, costituiva comunque un tentativo di applicare il concetto di “thin capitalisation” in quanto il principio ispiratore della Dual Income Tax era proprio costituito dalla necessità di agevolare la ricapitalizzazione delle imprese del nostro Paese, e quindi di premiare le imprese capitalizzate in luogo delle imprese che facevano costante ricorso all’indebitamento per il finanziamento della propria gestione. Paradossalmente un’inversione di tendenza in questo senso si era avuta proprio all’inizio del nuovo governo Tremonti, l’introduzione infatti dalla manovra fiscale cosiddetta Tremonti-bis, stravolgeva nuovamente le regole di pianificazione fiscale nazionale e di determinazione del reddito d’impresa, favorendo tutte quelle imprese che, soprattutto facendo ricorso a finanziamenti, anziché al versamento di capitale proprio, contribuissero ad effettuare investimenti in beni strumentali nuovi. Diverso è l’orientamento attuale del Ministero dell’Economia, che si sposta verso gli orientamenti fiscali ormai prevalenti in tutto il contesto economico europeo, visto che il concetto di “thin capitalisation”, così come i principi di ”participation exemption” e di determinazione di un utile fiscale complessivo per l’intero gruppo di imprese, sono ormai principi comunemente riconosciuti nelle legislazioni fiscali dei principali Paesi europei.
In particolare la bozza del nuovo art. 110 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, consultabile in questi giorni in anteprima sul sito internet del Ministero delle Finanze prevede l’applicabilità del regime di thin capitalisation per la remunerazione dei finanziamenti erogati o garantiti dai soci qualificati o dalle parti loro collegate ai sensi dell’art. 2359 dei codice civile e dai familiari del socio.
La lettera dell’articolo 110 non ha ancora definito il livello di partecipazione oltre il quale il socio si considera qualificato, seppure la legge delega facesse riferimento al “socio che detiene direttamente o indirettamente una partecipazione non inferiore al 10% del capitale sociale”.
Per quanto riguarda invece la definizione di parti correlate al socio, si fa riferimento agli usuali concetti di controllo di cui all’art. 2359 del codice civile.
Anche in questi casi, al fine di determinare il superamento delle soglie che indicano l’applicazione del regime di thin capitalisation, diventa rilevante poter stabilire se nella valutazione della catena del controllo si debbano considerare soltanto le partecipazioni in società intermedie loro stesse controllate (come ha sempre ritenuto una parte della dottrina, Luigi Belluzzo, Emanuele Lo Presti) o anche le partecipazioni in imprese che non sono direttamente controllate. E’ evidente che il richiamo all’art. 2359 del codice civile fa ritenere che nel calcolo delle percentuali di controllo debbano ritenersi ricomprese anche le partecipazioni in imprese non direttamente controllate.
Di conseguenza se l’impresa A detiene direttamente il 40% dell’impresa B e, per il tramite di un’altra impresa C (controllata al 80% da A) un ulteriore 20% della società B, A ha indirettamente il controllo di B, di conseguenza se A eroga un finanziamento a B, dovrà calcolare che l’importo di tale finanziamento non sia superiore al rapporto di indebitamento che il nuovo articolo 110 TUIR deve ancora definire raffrontato non alla totalità del patrimonio netto contabile dell’impresa B, ma alla quota di patrimonio netto contabile di B di sua pertinenza e cioè il 56% del patrimonio netto di B (40% di partecipazione diretta oltre a 80% X 20% = 16% di partecipazione indiretta).
Secondo la bozza del nuovo art. 110 le norme in tema di thin capitalisation non si applicano qualora il soggetto che finanzia la società sia una persona fisica o giuridica residente nel nostro Paese e quindi soggetto all’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi nel nostro Paese. In questo caso la disapplicazione della norma deriva direttamente dal fatto che gli oneri per finanziamento portati in deduzione da un soggetto residente vengono poi nuovamente assoggettati a tassazione in capo ad uno stesso soggetto residente, senza che si realizzi quindi alcun vantaggio fiscale in capo alle società.
La legge delega prevedeva in questo caso che “gli oneri finanziari confluissero in un reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle società”.
E’ altresì possibile evitare l’applicazione delle norme in tema di thin capitalisation in tutti i casi in cui il socio possa dimostrare che l’ammontare dei finanziamenti erogati che eccedono il rapporto prestabilito, sarebbe stato ugualmente erogato da parti terze indipendenti ed è giustificato dalla esclusiva capacità di credito dell’azienda finanziata con la sola garanzia del patrimonio sociale della stessa.
Per l’applicazione della norma non è richiesto che il socio sia l’effettivo erogante il finanziamento, il socio può anche essere soltanto il garante del finanziamento, ad esempio costituendo una garanzia presso una banca (un deposito titoli) e la banca stessa provveda poi ad erogare il finanziamento. In questo caso la norma in tema di thin capitalisation è applicabile anche in considerazione del fatto che gli utili (interessi) che il socio persona fisica percepisce in relazione a tale rapporto di finanziamento non sono soggetti a dichiarazione, ma scontano una imposta sostitutiva inferiore a quella delle imposte sui redditi e quindi generano l’applicazione della norma in tema di thin capitalisation.
Per quanto concerne poi l’ammontare del patrimonio netto che deve essere preso a riferimento per calcolare il rapporto di indebitamento, la bozza dell’art. 110 precisa che tale ammontare deve essere calcolato, come sopra esposto, in riferimento alla quota di partecipazione del socio, al netto dei conferimenti non ancora eseguiti, del valore di libro delle azioni proprie in portafoglio e delle perdite subite di cui entro la data di approvazione del bilancio relativo al secondo esercizio successivo, non sia avvenuta la ricostituzione dello stesso patrimonio netto, nonché del valore di libro delle partecipazioni in società controllate o collegate.
Si rileva inoltre che rispetto a quanto previsto dalla legge delega, l’attuale formulazione della bozza dell’articolo 110, prevede che siano considerati finanziamenti tutti i rapporti di natura finanziaria tra il socio e la società indipendentemente dalla loro qualificazione (citata nella legge delega) tra i “debiti di natura finanziaria”.
Al fine di non penalizzare le imprese di minori dimensioni, l’ultimo comma dell’art. 110 stabilisce che le norme in oggetto non si applicano ai contribuenti il cui volume dei ricavi non supera le soglie previste (5 milioni di euro) per l’applicazione degli studi di settore.

Le direttive Ocse in tema di thin capitalisation

Il problema della “thin capitalisation” è particolarmente sentito a livello multinazionale, poiché il finanziamento di un’impresa attraverso il capitale fornito dalle società socie, si presta agevolmente a determinare considerevoli spostamenti di materia imponibile da un Paese all’altro, e quindi a determinare una concorrenza fiscale anche potenzialmente negativa tra i diversi Paesi.
Si tratta infatti di tutti quei casi in cui una società residente in un Paese europeo riceve un finanziamento da una società socia residente in un Paese a regime fiscale privilegiato, in conseguenza di tale finanziamento si attua lo spostamento di materia imponibile dalla società residente nel Paese europeo alla società residente in un Paese a regime fiscale privilegiato e quindi la conseguente riduzione nella tassazione di tale materia imponibile.
Le norme in tema di “thin capitalisation” sono di conseguenza spesso ricomprese nei trattati internazionali contro le doppie imposizioni, le stesse norme sono altresì ricomprese nel modello generale OCSE per la stipulazione di accordi fra gli stati che tendano ad eliminare la doppia imposizione.
In particolare, l’articolo 9, paragrafo 1, del modello OCSE prevede che, qualora tra due imprese di due stati contraenti vi siano rapporti di partecipazione diretta o indiretta al controllo o al capitale, le relazioni commerciali e finanziarie che tra queste intercorrono debbano essere pattuite alle medesime condizioni che sarebbero convenute fra imprese indipendenti. Nel caso in cui ciò non avvenga è nella possibilità delle amministrazioni finanziarie dei diversi Paesi di recuperare a tassazione la materia imponibile in tal modo sottratta ad imposizione nel Paese di origine.
Un’altra indicazione è contenuta nel modello OCSE all’articolo 11, paragrafo 6, che prevede la distinzione tra gli interessi pattuiti in conseguenza di particolari relazioni esistenti tra il debitore ed il creditore o tra ciascuno di essi e terze entità, e gli interessi che invece costituiscono il valore normale della prestazione di finanziamento, valore normale che deve essere misurato in relazione ad un’operazione con pari livello di rischio potenzialmente operata sul libero mercato.
In questo senso nel nostro Paese il principio del valore normale nelle relazioni intragruppo è da sempre ribadito dalla nota circolare ministeriale n. 32 (prot. 9/2267) del 22 settembre 1980, che stabilisce che nella determinazione del reddito imponibile, con riferimento alle operazioni intragruppo, ed anche con riferimento all’operazione di finanziamento tra le imprese, occorre considerare il valore normale delle prestazioni rese, al fine di evitare che l’addebito di un costo ad una controllata ad esempio residente nel nostro Paese superiore al valore normale della prestazione ricevuta da una controllante multinazionale, possa contribuire a trasferire materia imponibile dal nostro Paese all’estero.

La posizione della Corte di Giustizia della Comunità Europea

La Corte di Giustizia della comunità europea, si è pronunciata in merito ad un problema di “thin capitalisation” nella sentenza n. C-324/00 del 12 dicembre 2002. Si trattava del caso di una società con sede in Germania denominata Lankhorst-Hohorst, controllata da una società commerciale con sede in Olanda a sua volta controllata da un’altra società di diritto olandese, quest’ultima società provvedeva ad emettere un finanziamento a titolo oneroso a favore della società con sede in Germania.
All’epoca in cui si svolsero gli eventi, ai sensi degli articoli 8.1 e 8.2 della legge tedesca che regola il reddito sulle società di capitali, era previsto, dalla medesima legge, che il debito assunto da una società residente per un finanziamento stipulato nei confronti di una società non avente diritto al credito d’imposta sui dividendi, fosse considerato come una distribuzione dissimulata di utili nel caso in cui, in capo alla società residente, il debito relativo a tale finanziamento, superasse il triplo del capitale di rischio dell’impresa, e salvo il fatto che la debitrice potesse dimostrare di aver potuto ottenere il finanziamento alle normali condizioni di mercato.
In pratica quindi la legislazione tedesca ammetteva la deducibilità degli interessi passivi pagati nei confronti di un soggetto che non fruisse del regime del credito d’imposta sui dividendi, soltanto nella misura in cui questi interessi fossero assunti alle usuali condizioni di mercato, o, comunque, fossero relativi ad imprese residenti il cui ammontare di capitale di debito non era superiore di oltre tre volte il capitale di rischio.
Si tratta, in pratica, dell’usuale norma introdotta nei diversi Paesi europei al fine di prevenire lo spostamento di materia imponibile verso Paesi a fiscalità privilegiata.
Si deve anche notare che il meccanismo di indebitamento dell’impresa, rispetto al sistema di distribuzione dei dividendi, non è soltanto più efficiente dal punto di vista fiscale perché consente di dedurre in capo all’impresa indebitata una parte di costi che possono essere tassati in un Paese a regime fiscale maggiormente privilegiato; ma è anche più efficiente poiché dal punto di vista dei singoli trattati internazionali contro le doppie imposizioni, usualmente, la ritenuta che viene scontata all’uscita delle somme pagate a titolo di interessi nei diversi stati membri è inferiore alla ritenuta che può essere invece applicata all’uscita dei dividendi.
Fa ovviamente eccezione la disciplina vigente nella comunità europea, recepita nel nostro ordinamento dall’articolo 96-bis del testo unico delle imposte sui redditi, cosiddetta direttiva madre-figlia secondo cui, al valere di certe condizioni, non sono soggetti a ritenuta i dividendi pagati da società residenti nell’ambito della comunità europea.
Nel caso di specie, l’interesse della Corte di Giustizia dalla Comunità Europea, era volto a determinare la possibilità che le leggi fiscali introdotte in Germania, discriminando di fatto le società che beneficiano del credito d’imposta sui dividendi dalle società che non beneficiano di tale credito, e quindi discriminando di fatto tutte le società non residenti in Germania che, appunto, non beneficiano del predetto credito d’imposta, fosse volta a limitare il diritto di stabilimento di cui all’articolo 43 del Trattato CEE secondo cui: “(…) le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali e filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività non salariate e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese in particolare di società ai sensi dell’articolo 48, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.”
La Corte di Giustizia ha così argomentato la propria sentenza:
a) in primo luogo è stato osservato che secondo la costante giurisprudenza della stessa Corte, seppure la materia delle imposte dirette rientri nella competenza dei singoli stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario, in particolare, astendendosi da qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza (si vedano anche le sentenze 11 agosto 1995, causa C-80/94 Wielockx e causa C-107/94 del 27 giugno 1996 Asscher);
b) è stato altresì osservato che, seppure siano esistenti in Germania società che non beneficiano del regime del credito d’imposta, si tratta però di società esenti dall’imposizione sul reddito d’impresa, il fatto di includere tra le società sottoposte al regime della “thin capitalisation” soltanto questa tipologia di società, è di fatto discriminante nei confronti di tutte le società non residenti in Germania;
c) va altresì valutato se la misura nazionale prevista dallo Stato tedesco persegue uno scopo legittimo e compatibile con il Trattato e sia quindi giustificata da motivi imperativi di interesse generale, anche in tale ipotesi però la Corte ritiene che tale misura debba comunque essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non debba eccedere quanto necessario per farlo;
d) la Corte ha altresì ricordato che per giurisprudenza costante, la riduzione delle entrate fiscali di uno Stato membro, non costituisce motivo imperativo di interesse generale che possa giustificare un provvedimento in linea di principio in contrasto con una libertà fondamentale, come è la libertà fondamentale di stabilimento, sancita dall’articolo 43 del Trattato (si vedano anche le sentenze 16 luglio 1998 causa C- 264/1996 e 21 settembre 1999, causa C-307/97 Saint Gobain);
e) In merito alla controversia in argomento la Corte di Giustizia della Comunità Europea ha quindi stabilito che costituisce violazione dell’articolo 43 del Trattato CEE, la norma di diritto interno della legislazione fiscale tedesca, che considera distribuzione di dividendi, la distribuzione di interessi, nel caso in cui rapporto debito/capitale superi il rapporto tre a uno, nei confronti di società che non beneficiano del regime del credito d’imposta.
La pronuncia della Corte di Giustizia è importante perché interviene su una norma di diritto interno che trova ormai riscontro in molti Paesi europei e che è volta proprio ad evitare che attraverso il meccanismo del pagamento di interessi passivi si giunga ad ottenere lo spostamento di materia imponibile verso Paesi a fiscalità privilegiata.
Si fornisce di seguito una breve disamina di alcuni principali orientamenti di stati membri in tema del meccanismo di “thin capitalisation”.

Il regime vigente nei principali Paesi europei

Lussemburgo

In Lussemburgo per quanto concerne la normativa delle società di partecipazione (Soparfi), è previsto che il rapporto massimo tra debito e capitale della società partecipata non sia superiore al rapporto di 6 a 1, l’ammontare di interessi passivi che eccede tale livello non è di regola considerato deducibile in capo alla società che li eroga.
La normativa del Granducato del Lussemburgo è particolarmente vantaggiosa perché consente anche che non sia applicata nessuna ritenuta sugli interessi pagati al socio della società holding, purché la partecipazione risulti detenuta da almeno dodici mesi.
Si rileva inoltre come la società partecipata possa essere anche fortemente indebitata, visto che il rapporto 6 a 1 è sicuramente un rapporto di indebitamento elevato.

Olanda

In Olanda il regime applicabile alle società Holding sia nella forma di BV o NV (Naamloze Vennootschamp, abbreviata NV, che corrisponde alla forma giuridica della società per azioni del nostro Paese o Besloten Vennootschamp met beperkte aansprakelijkheid, abbreviazione BV, che corrisponde alla forma giuridica della società a responsabilità limitata nel nostro Paese), prevede che il rapporto massimo debito/capitale sia pari a 85 a 15 e che per beneficiare dei requisiti di deduzione di interessi sia necessario assoggettare in capo alla società a tassazione ordinaria l’utile pari almeno al 25% dei costi di gestione della stessa.
Al fine della determinazione di tale utile minimo tassabile è possibile un ruling preventivo all’amministrazione finanziaria olandese.
La normativa olandese appare particolarmente importante in tema di deduzione di interessi passivi non per l’elevato livello del rapporto debito/capitale possibile nel Paese in esame, ma in considerazione del fatto che, ai sensi della normativa olandese, non è prevista l’applicazione di nessuna ritenuta nel caso in cui vengano pagati interessi al socio della società e si tratti di una società o di una persona fisica non residenti in Olanda.

Spagna

Anche in Spagna vigono le regole in merito al sistema di “thin capitalisation”, in particolare è previsto che il rapporto massimo debito/capitale in capo ad una società holding (in particolare le ETVE – società holding che detengono partecipazioni in società non residenti), sia pari a 3 a 1, gli interessi che eccedono tale rapporto sono considerati come distribuzione dei dividendi.
Interessante è anche la normativa in tema di interessi pagati da una società di diritto spagnolo a società estere socie non residenti, visto che tale normativa prevede che non sia applicata nessuna ritenuta sugli interessi pagati ai non residenti.
In tema di determinazione poi del rapporto debito/capitale in capo alle società holding residenti in Spagna, è possibile attivare un ruling preventivo nei confronti dell’amministrazione finanziaria spagnola.

Belgio

In Belgio le due fattispecie più diffuse di società di capitali sono le naamloze vennotschap / societé anonime abbreviazione SA e le besloten vennotschap met beperkte aansprakelijkheid / société privée à responsabilité limitéé, abbreviato in SPRL.
La deducibilità degli interessi passivi in capo alle società holding con sede in Belgio non è di regola soggetta a limitazioni, fanno eccezione i casi in cui gli oneri finanziari siano relativi a partecipazioni detenute per meno di dodici mesi ed i casi in cui tali interessi passivi siano corrisposti a persone fisiche o giuridiche che risiedono in Stati o territori considerati dalla legge Belga a regime fiscale privilegiato.
In quest’ultimo caso si applicano le regole in tema di “thin capitalisation”, è infatti previsto che non sono deducibili gli interessi relativi a finanziamenti che eccedono il rapporto debito / capitale pari a 7 a 1, nel caso poi si tratti di interessi corrisposti a persone fisiche, ad amministratori e loro parenti o affini, indipendentemente dalla loro residenza, sono considerati indeducibili gli interessi che eccedono il rapporto di 1 a 1.

L’attuale normativa italiana

A prescindere dalla normativa in corso di introduzione nel nostro Paese in tema di thin capitalisation, è comunque possibile rinvenire anche nell’ordinamento tributario vigente, un insieme di norme che tendono a limitare l’indebitamento delle imprese e la corresponsione di interessi passivi, e quindi lo spostamento di materia imponibile verso Paesi a fiscalità privilegiata.
Già si è sopra argomentato circa la valenza di alcuni tipi di norme fiscali volte a favorire la ricapitalizzazione delle imprese del nostro Paese, come è stato per esempio il caso della DIT (Dual Income Tax).
Esistono però una serie di norme in tema di applicazione della ritenuta a titolo di imposta che perseguono il medesimo fine delle norme in tema di “thin capitalisation” in quanto anche se di fatto non fanno considerare indeducibili gli interessi pagati all’estero da parte di una società italiana, rendono però poco conveniente il trasferimento verso Paesi a regime fiscale privilegiato di tali somme, imponendo, anziché la corresponsione di una ritenuta pari al 12,5% a titolo di imposta, la corresponsione di una ritenuta pari al 27% a titolo di imposta sugli interessi in uscita nei confronti di tali Paesi.
L’articolo 26, ultimo comma, del decreto Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, stabilisce che i soggetti indicati all’articolo 23 dello stesso decreto (tra i quali sono ricomprese le società di capitali residenti) applicano una ritenuta a titolo d’imposta pari al 12,5% sui redditi di capitale da essi corrisposti a soggetti non residenti, e che la misura della ritenuta è elevata al 27% se i percipienti sono soggetti esteri residenti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, così come individuati con il decreto del Ministero delle Finanze emanato ai sensi dell’articolo 76, comma 7-bis, del decreto presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
La norma in esame, che contiene la lista di Paesi e territori a regime fiscale privilegiato nei confronti dei quali si applicano sia limitazioni alla deduzione dei costi, sia la ritenuta a titolo di imposta sugli interessi eventualmente pagati dalla società residente nel nostro Paese pari al 27%, è attualmente contenuta nel D.M. 23 gennaio 2002, tale norma secondo l’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria con circ. n. 23/E del 1° marzo 2002, esplica effetti a decorrere dalla data del 19 febbraio 2002, ossia dal quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione, mentre, fino alla data del 18 febbraio 2002 si deve fare riferimento all’elenco contenuto nel precedente D.M. 24 aprile 1992.
A titolo esemplificativo e non esaustivo sono ricompresi nell’ambito di applicazione di tale norma i seguenti Stati: Alderney (Isole del Canale), Andorra, Anguilla, Antille Olandesi,
Aruba, Bahamas, Barbados, Barbuda, Belize, Bermuda, Brunei, Cipro, Filippine, Gibilterra, Gibuti (ex Afar e Issas), Grenada, Guatemala, Guernsey (Isole del Canale), Herm (Isole del Canale), Hong Kong, Isola di Man, Isole Cayman, Isole Cook, Isole Marshall, Isole Turks e Caicos, Isole Vergini britanniche, Isole Vergini statunitensi, Jersey (Isole del Canale), Kiribati (ex Isole Gilbert), Libano, Liberia, Liechtenstein, Macao, Maldive, Malesia, Montserrat, Nauru, Niue, Nuova Caledonia, Oman, Polinesia francese, Saint Kitts e Nevis, Salomone, Samoa, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Sant’Elena, Sark (Isole del Canale), Seychelles, Tonga, Tuvalu (ex Isole Ellice), Vanuatu.
Si deve però constatare che il Ministero delle Finanze con la circolare n. 18 del 12 febbraio 2002, anche se in tema di applicabilità delle norme di cui all’art. 127-bis del TUIR, ma ormai con indirizzo che deve ritenersi consolidato anche in caso di applicazione dell’art. 76 del TUIR, vista la sostanziale e formale identità delle black-list applicabili ai due articoli, almeno per quanto concerne le imprese ubicate in Svizzera, ha affermato che “le società localizzate in Svizzera che, pur astrattamente soggette ad imposta cantonale o municipale, di fatto beneficiano per effetto di accordi amministrativi, di trattamenti fiscali particolari (…), di una base imponibile determinata in via forfetaria oppure rappresentata da una frazione dell’utile effettivo”, sono di fatto ritenute assoggettate ad un regime fiscale privilegiato e quindi provocano l’applicazione in capo alla eventuale controllante italiana delle norme previste sia dall’articolo 127-bis, sia, vista la sostanziale identità delle due black-list, delle norme previste dall’articolo 76 D.P.R. 917/1986. Di conseguenza si deve ritenere che la norma operi anche nel caso di interessi di finanziamento, e quindi che gli interessi di finanziamento pagati da una società italiana ad una società holding con sede in Svizzera (che si avvantaggi dei citati benefici fiscali) debbano scontare la ritenuta a titolo di imposta del 27%. Appare quindi evidente come, nonostante nel nostro Paese non esistano ancora norme in tema di “thin capitalisation”, peraltro in corso di introduzione come esposto in premessa, la norma contenuta nell’ultimo comma dell’art. 26, D.P.R. 600/1973, sia di fatto tesa a raggiungere il medesimo fine di evitare che sia economicamente e fiscalmente conveniente spostare interessi passivi e quindi materia imponibile verso Paesi a fiscalità privilegiata.

Christian Dominici